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Un professionista che non apporta soluzioni è parte del problema.

Il Supremo di Spagna distribuisce condanne per oltre cento anni ai 12 imputati indipendentisti

Carlos Puigdemont, dalla sua villa sicura e comoda, nei sobborghi eleganti di Bruxelles (sette mila euro a mese), ha parlato di “agire contro la barbarie di tale sentenza”, mentre Oriol Junqueras, suo ex braccio destro, ex vice presidente della Catalogna e segretario della Sinistra Repubblicana Catalana, dalla sua cella del carcere (dove non paga affitto e vitto e risiede dal 2017) lo ha definito “un verdetto che suona come una vendetta”. Non l’hanno di certo presa bene la sentenza tra le più attese nella storia della moderna Spagna: oggi il Tribunale Supremo si è espresso dopo quasi dieci mesi, tra udienze e camera collegiale. Alla fine la sentenza è arrivata di prima mattina: tredici anni per Junqueras accusato di disobbedienza, sedizione e malversazione di denaro pubblico. Tra i 9 e i 10 ani ai suoi sette ministri coinvolti nel referendum illegale del primo ottobre 2017, altri 9 anni ai due Jordi, organizzatori del referendum (hanno prodotto, distribuito e nascosto al blitz della Guardia Civil, le schede per votare un referendum già dichiarato illegale dalla Corte Costituzionale).
Una sentenza dura, vera, perché come ha ricordato il premier facente funzioni, il socialista, Pedro Sánchez, “nessuno è al di sopra della Legge”. Perché al disopra delle legge peer mesi hanno agito i ministri della Generalitat della Catalogna che, in base a un referendum, senza senso e senza censo, senza alcuna regola, ha creduto di portare il suo Parlamento a dichiarare la Repubblica della Catalogna, in modo totalmente unilaterale: come dire a Madrid, così è e così dovete accettare o sono guai. Giammai, ha tuonato prima la Corte Costituzionale, e poi l’ormai dimenticato ex premier del Governo di centrodestra Mariano Rajoy, vergognosamente dimenticato per il suo impegno nel frenare i riottosi catalani, impegno dal quale ne è uscito vincitore, ma più debole e bruciato. Lui che con coraggio, nei suoi terribili quasi sette anni di gestione, ha rimesso a posto i conti pubblici, attuato la severissima cura imposta dalla Troika per fare uscire l’economia spagnola dal suo coma e ha poi scagliato contro il governo dei disobbedienti catalani il tremendo articolo 155 che, due anni fa, ha esautorato Governo e Parlamento di Barcellona, finiti sotto il controllo di Madrid che ha spinto per nuove elezioni.
“Ora si apre una nuova era per la Catalogna e la Spagna” ha dichiarato subito in diretta tv dalla Moncloa, dopo il verdetto, il premier Sánchez che si getta nella quasi impossibile impresa di eliminare i rigurgiti di secessionismo e di protesta che un minuto dopo la sentenza sono già esplosi per le strade di Barcellona e della Catalogna, con concentrazioni spontanee per strada, i primi cortei, l’invasione dei binari ferroviari e un tentativo di occupare le piste dell’aeroporto El Prat che ha causato parecchi ritardi e la carta della Guardia Civil sui dimostranti.
Una parte di Barcellona e della Catalogna va a letto stasera, ferita, umiliato, rabbiosa e con voglia di vendicarsi. La rabbia serpeggia, io mi sono dotato di un potente otto cilindri a trazione integrale e questa notte percorrerò i 620 km che dividono la capitale spagnola dalla città dei conti, guidando in una bella notte tiepida, attraverso la Castilla-La Mancha e la Castilla y Leon e un pezzo della Navarra, per andare a vedere di persona, come sempre faccio, che cosa succederà a Barcellona, la disobbediente, a Barcellona la condannata, ma a capire anche il giudizio di chi da sempre non vuole la secessione, e non fa nulla per diventare protagonista di questo scempio di democrazia.